ADESSO COME ADESSO AL PELLICANO
Nel settembre 2010 visitai per la prima volta la comunità Il Pellicano.
La comunità interviene per aiutare persone affette da tossicodipendenze, alcolismo e disagi psichici e sociali. Gli ospiti della struttura sono circa 35: possono essere liberi, in regime di affidamento terapeutico, o agli arresti. L’obiettivo delle diverse terapie è quello di risolvere le loro problematiche e di reinserirli così, nel tessuto sociale. Gli strumenti terapeutici adottati sono l’intervento psicologico, educativo, medico psichiatrico e il lavoro, sia attraverso attività svolte al’’interno della struttura stessa, sia con tirocini formativi e inserimenti vari come le realtà lavorative della zona. La Comunità si avvale anche di progetti esterni, coadiuvanti al percorso terapeutico.
Dopo alcuni passaggi in comunità ho pensato di offrire agli ospiti del Pellicano un seminario di avvicinamento alla fotografia, articolato in una parte teorica e in una pratica. Questo progetto, iniziato a febbraio 2011 con un incontro settimanale in cui tenevo questo corso con il prezioso aiuto di un amico, mira a rappresentare una fonte di stimoli e interessi e a supportare il lavoro psicoeducativo sulle emozioni e le dinamiche relazionali all’interno del gruppo. La comunità e l’arte, due sensibilità, umana e artistica, come strumenti paralleli volti alla promozione di un miglioramento socio-educativo.
Tutto ciò ci ha permesso di coordinare un lavoro di assemblaggio di materiali fotografici, ritratti, moodboards, storie e foto reportage da loro realizzati, frutto dell’apprendimento di nuove competenze e di interazioni comuni. Il risultato si è concretizzato dopo circa un paio di mesi nella creazione di un’installazione ideata e realizzata dagli ospiti, composta da materiali assemblati, codici colori, supporti e forme differenti, che illustrava il loro viaggio nel mondo della fotografia. Domenica 9 ottobre 2011, in occasione della giornata della Pace, circa mille persone, arrivate a fine marcia in comunità, hanno potuto apprezzare il risultato del percorso da loro raggiunto.
L’interesse in questa realtà è cresciuto di pari passo con l’approfondimento dei rapporti personali con ogni singolo ospite, tanto da scrivere un soggetto e produrre un cortometraggio in costumi settecenteschi.
Questa Comunità, luogo del non-privilegio, è una sorprendente oasi di normalità. I suoi ospiti, come ognuno di noi, cercano altrove, ma ora il “dentro” è il “fuori”: vestono i panni della Casta Eletta per vivere una piacevole e spensierata esperienza nella Corte del Privilegio. Un giorno caldo d’estate, occupati nelle inutili attività nei giardini di Corte, scoprono senza accorgersene, come in un gioco, che il loro vivere quotidiano è altrettanto noioso e privilegiato. Come reagiscono nella pelle del privilegio? In dialoghi a modo, i loro privilegi si alternano ai privilegi che non hanno mai conosciuto e si spogliano davanti alla Verità. Una metafora tra la vita degli ospiti della comunità e coloro che non fanno parte di quel mondo. Abiti, trucchi e accessori, sono gli unici elementi che intervengo nell’ambiente reale ed operano delle improvvise mutazioni nei caratteri fisici. Attraverso una rappresentazione teatrale ed iconografica, si lascia che i corpi siano macchine da recitazione, attraverso parole loro e non. Il corpo come punto di partenza influenza l’emotività per far uscire il loro intimo, il loro doppio, il loro desiderio di essere qualcun altro. Essere i privilegiati, forse. Ma anche loro, fuori, cercano la libertà altrove. Recitare una parte non richiesta, imposta dai travestimenti, si altalena alla verità delle loro personalità. Finché la verità della vita, delle loro frasi, delle loro risposte, metterà a nudo la ricerca o il desiderio umano di appartenere di qui o di la, in una perenne ricerca.
15° Genova Film Festival
Adesso come adesso, Cahiers du festival, Concorso Nazionale Documentari
Un campo di grano verde acido. Un fiore fucsia tondo che ondeggia elastico. Dove siamo? Cosa sto vedendo? In quale sogno sono capitata? Nel sogno di chi?
Non mi ricordo chi diceva che guardare i film era passeggiare nei sogni di qualcuno. Il documentario di Michele Casiraghi, di cui sono già innamorata e dopo vi dirò perchè, è un’elegante passeggiata tra il dentro e il fuori. Dentro la bolla onirica si vedono eleganti dame settecentesche con barbe incolte, tatuaggi e ghigni deformi, passeggiare con grazia simulata e bere tè dai colori metallici. Arriva un maggiordomo con un vassoio di carte. Ognuno pesca una carta e legge una frase scritta da un joker bambino che scrive in un’ala del castello. Le frasi sono estratti da dialoghi di un mondo di privilegio fatto di viaggi, ristoranti newyorchesi, pensieri oziosi, involontariamente snob.
Fuori dal sogno cosa c’è? Fuori c’è il vero cdentro: le dame con parrucca e cipria in realtà sono detenuti di un carcere per soggetti con patologie mentali o fisiche che rendono inappropriata la loro permanenza in un carcere regolare. Telecamera fissa, sguardo innamorato, vediamo i visi, quasi sempre deturpati e infantili di queste persone che sembrano sempre sul ciglio di riscoprire la speranza, una speranza mattutina, che la giornata però spesso tradisce, chiudendosi alla sera. A ognuno di loro, questi Caini inconsapevoli, sono state girate delle carte all’apparenza maligne: malati, criminali, scenari di povertà ignoranza squallore.
Quello che però colpisce di questo documentario allo stesso tempo esperienziale ed estetizzante è proprio il racconto del regista: Casiraghi ha vissuto una vita che quasi tutti considerano zuppa di privilegio: studi in un’università newyorchese, viaggi con l’Onu in Cambogia e Africa, scuola di mimo Lecoq, il massimo del radical-chic.
Quando parla del film sembra non aver mai attraversato un momento di asprezza o dubbio, il viso è fermo in un’espressione di meraviglia divertita. Ma poi ti racconta che è proprio lui a tornare “dentro” ogni settimana, è proprio lui a preferire il dentro al fuori, ad avere bisogno di quella sincera umanità che pesca sempre le carte sbagliate.